Ho sempre associato il growth hacking a barbe lunghe e portatili pieni di adesivi. E ho sempre pensato che fosse una cosa per grosse aziende tipo Toyota, Booking o Facebook.
Finché, ormai un paio di anni fa, ho iniziato a seguire Raffaele Gaito che è stato e continua ad essere un grande divulgatore italiano in campo di growth hacking.
Lui mi ha fatto capire che dietro al nome molto figo di growth hacking, c’è un modo di pensare e prendere decisioni semplice ed affascinante.
Il modo di pensare che apre le porte alla sperimentazione continua, e il modo di prendere decisioni basato sui numeri e imparando da quello che non ha funzionato.
Possibile che questo bel modo di approcciare la crescita di un business, sia un’esclusiva di grosse aziende con grossi budget?
Cosa possiamo fare noi, piccoli imprenditori e professionisti del web, per muovere i primi passi e trarre qualche beneficio dal growth hacking?
Per capirci di più ho fatto questa domanda a 9 growth hacker italiani.
“Come introdurre il growth hacking in un progetto web?”
Lascio a loro la parola, qui sotto trovi le risposte di professionisti che grazie al growth hacking hanno portato benefici alle aziende più diverse.
E vedrai che non tutti hanno la barba lunga!
Raffaele Gaito
Growth Coach @ Raffaele Gaito // LinkedIN
Quando si introduce un processo di Growth Hacking all’interno di un’azienda bisogna lavorare in punta di piedi. La cosa peggiore che si può fare è andare da un imprenditore e dirgli di rivoluzionare il modo con cui ha lavorato fino a ieri. I cambiamenti, soprattutto quelli importanti, avvengono un po’ per volta.
Personalmente prima di partire con qualsiasi nuovo cliente cerco sempre di impostare una fase preliminare di informazione/
Far comprendere all’imprenditore cosa si andrà a fare, come lo si farà e con quali conseguenze è quindi di vitale importanza per una buona riuscita di un progetto. Questo vale ancora di più quando ci troviamo di fronte a imprenditori della “vecchia scuola” o a persone che hanno poca dimestichezza con i temi del digitale, dell’analisi dei dati e della sperimentazione.
Probabilmente l’aspetto più importante in questa fase riguarda il non fare promesse che non si possono mantenere. L’onestà e la trasparenza sono valori che non passano mai di moda e che consentono di impostare un rapporto lavorativo duraturo e solido anche quando si tratta di Growth Hacking.
In questo ambito è impossibile promettere dei risultati o assicurare dei ritorni di qualche tipo a priori. La verità è che nessuno può fare promesse e chi si azzarda a farle non dovrebbe definirsi un Growth Hacker, ma un mago. In quei casi serve la sfera magica, non la sperimentazione.
Ho sempre pensato che il ruolo dei consulenti/formatori/esperti debba essere quello di un facilitatore e infatti è così che mi sono sempre posto e continuo a pormi a clienti e studenti. Non come la persona che conosce le risposte, ma come quella che stimolerà le giuste domande.
La verità è che alle risposte si arriva insieme all’imprenditore, attraverso un processo che può richiedere più o meno tempo. Un bravo Growth Hacker, a mio avviso, è quello che gestisce al meglio questo processo fornendo all’imprenditore strumenti, modelli, strategie e un pensiero critico.
Quando si parla di “cultura della sperimentazione” non si deve sottovalutare la parolina “cultura”. La chiave è tutta lì: riuscire a trasmettere all’interlocutore che la sperimentazione è fondamentale per il proprio progetto. Prima che esserlo per la crescita lo è per l’evoluzione e la trasformazione del proprio business.
La verità è che non esiste innovazione senza sperimentazione.
E i business che non innovano sono business che vanno a morire. Oggi ancora di più, in un’epoca nella quale il digitale ha completamente cambiato le regole (e la velocità) del gioco.
In questo scenario sperimentare significa uscire dalla propria zona di comfort di “quello che funziona” e iniziare a mettersi in discussione per trovare delle valide alternative.
Perché? Perché quello che oggi funziona domani non funzionerà più.
Non è questione di se, è questione di quando. E solo chi ha trovato un’alternativa sopravvive.
Lara d’Argento
Growth Hacker @ Tera SRL // LinkedIN
Sono certa che a questa domanda altri potranno rispondere meglio di me. Soltanto io però posso aggiungere qualcosa da un prospettiva finora unica: porto il mio riscontro in qualità di growth hacker assunta part-time in una PMI del sud Italia, a Bari.
Da oltre quindici anni, l’azienda per cui lavoro vende prodotti ed expertise riguardo soluzioni per il monitoraggio dei consumi energetici, B2B. Abbiamo scelto di introdurre il growth hacking su un prodotto nuovo, che sarà venduto online, tramite un sito che è stato creato ad-hoc, destinato al mercato B2C nel settore IoT (internet of things).
Ritengo che il growth hacking non sia un aiuto valido soltanto per chi abbia un progetto online. Il progetto online è un mezzo con cui si possano sperimentare le azioni di growth hacking. Prima dell’azione, c’è il pensiero: il growth hacking è un approccio, un mindset, una metodologia esecutiva. In altre parole, non è che siccome io abbia un progetto online, dunque voglia ricorrere al growth hacking. È il contrario: giacché voglio introdurre concetti di growth hacking nel mio lavoro, dunque individuo un progetto ‘piccolo’ su cui avviare questa sperimentazione verso la crescita.
Per questo motivo, su un progetto online che differisce dal core business dell’azienda, il CEO ha cercato me.
Siamo in pochi ad occuparci di growth hacking: a seconda del modo e del contesto in cui operiamo, ci troviamo di fronte varie sfide. Come ho scritto nell’articolo che Raffaele Gaito mi ha dedicato sul suo blog, una delle obiezioni più ricorrenti nel territorio in cui mi trovo è stata: “Pago la consulenza growth hacking, magari anche in modalità corso intensivo di tre giorni con alcuni miei dipendenti… E poi, chi farà le cose? Se devo affidare compiti in outsourcing, chi coordinerà e chi verificherà? Io ho bisogno di una risorsa qui, in azienda, in squadra con noi, anche a tempo parziale, purché continuativo”.
Se preferite assumere un growth hacker, consiglierei vivamente di fare pace con il concetto di smart working. Soprattutto al sud, questo passa con fatica.
Si è convinti che ‘vedendo’ la persona lì per 8 ore al giorno per 5 giorni in ufficio, sarà più produttiva. Falso. Di solito la/il growth hacker ha un profilo ibrido, è multipotenziale, dunque un soggetto che trae la propria massima produttività dal seguire più interessi. Non significa che svolga contemporaneamente più compiti o che sia incapace di concentrarsi, bensì che lavori in modo differente.
Se preferite invece ricevere una consulenza growth hacking, vi esorto, prima di chiederla, ad accertarvi che sarete in grado di mettere in atto e di strutturare quanto vi sarà stato detto.
Se, infine, vi aspettate che il growth hacking sia una bacchetta magica, sbagliate del tutto.
Walter Insinga
Growth Marketer & Facebook Ads Specialist @ Pastbook // LinkedIN
Il processo di Growth Hacking avrebbe un appiglio assai maggiore rispetto alla situazione attuale, se solo i principali concetti che stanno alla base della disciplina fossero compresi e demistificati.
Mi piacerebbe chiarire, rispondendo alla domanda, alcuni dei punti che possono portare il maggior beneficio a chi vorrebbe implementare il growth hacking nel proprio progetto o all’interno della azienda per cui lavora.
Il growth Hacking non è uno sprint
Molte volte l’eccessiva pragmaticità di imprenditori e responsabili che si approcciano all’argomento porta questi ultimi all’abbandono dell’idea per mancanza di risultati immediati. È innegabile che per piccole e medie imprese sia difficile prevedere e stanziare budget su attività non focalizzate alla vendita e al risultato nel breve termine. Questo approccio miope verso un risultato di breve periodo ricerca un’idea che scateni la crescita esponenziale, quella di cui tanto si parla nei blog post americani. Il growth hacking non è nulla di tutto ciò. Lo scopo dell’avviare un processo di growth hacking nel proprio progetto è la sperimentazione continua su tutti i canali e settori del business. L’obiettivo dovrebbe essere il miglioramento (o crescita) marginale ma costante, e l’attenzione rivolta agli insegnamenti piuttosto che alle “vittorie” o alle “sconfitte”.
Non innamorarti delle tue idee
Ricordo ancora il mio primo esperimento da growth hacker. La conoscenza del processo e il guardare il business con occhi nuovi mi aiutò a pensare “out of the box” e ad allontanarmi dai preconcetti dovuti al “si è sempre fatto così”. Il test prevedeva l’introduzione di Whatsapp come nuovo canale di comunicazione al posto del tradizionale form online, al fine di rendere il contatto con l’utente più immediato e familiare. Tuttavia, al termine dell’esperimento l’idea non fu implementata definitivamente perchè, dati alla mano, non produceva nessun miglioramento delle metriche relative al tasso di conversione, né migliorava la percezione del servizio per il cliente finale (da notare l’attenzione per i dati sia quantitativi che qualitativi).
Risultati negativi del genere accadono giornalmente per gli addetti ai lavori, e agli inizi vengono presi come dei fallimenti veri e propri. Il consiglio è prendere il tutto meno come una sconfitta o una vittoria ma più come degli insegnamenti, o come un metodo per conoscere sempre meglio il proprio business e i propri clienti.
Molti considerano il proprio business o i propri canali di acquisizione non adatti alla sperimentazione quando in realtà basta utilizzare il giusto mindset. Ad oggi, perfino su canali paid come Facebook Ads, l’unico approccio che mi permette di scalare business già consolidati è proprio la sperimentazione continua su tutti i fattori in gioco: dalle creatività alle audience.
Adriano Ercolani
Head of Growth @ Treedom // LinkedIN
Non ci girerò tanto intorno. Il growth hacking comincia nell’esatto momento in cui ci si lascia guidare da 3 fattori principali:
1) Dati
2) Feedback
3) Buon senso
Tutto ruota intorno a un sottile equilibrio tra questi fattori.
Spesso, nel business, si crede a ciò che si vuole. I dati e i feedback dei nostri utenti, invece, spazzano via la politica dei “secondo me” e del “si è sempre fatto così“, che sono la kryptonite della crescita aziendale e dell’innovazione.
E quando sei un decision maker, è davvero dura da accettare. Spesso per ego, spesso per amore di un’idea che sembra la svolta ma che in realtà non lo è.
Credo che prima di cominciare, qualsiasi imprenditore o professionista debba porsi alcune domande:
• Sono disposto a vedere un’idea funzionare, anche se non è stata mia?
• Sono disposto a tagliare (o trasformare) uno dei miei prodotti se i dati dicono questo?
• Sono disposto a cambiare il mio modello di business se necessario?
Buon senso, no? Una volta superato questo step, arriviamo alla parte pratica.
Per crescere, è necessario capire dove ci troviamo. Siamo appena nati? Siamo attivi da 30 anni? Da quanto il nostro prodotto o il nostro marketing non fa qualcosa di diverso per funzionare meglio? Per capire tutto ciò, necessitiamo di dati quantitativi e qualitativi.
La prima cosa da fare quindi, è mappare il più possibile il ciclo di vita dell’utente in termini di dati quantitativi e qualitativi.
La seconda cosa da fare è individuare in quale parte di questo flusso siamo più carenti: quella può essere una prima area su cui intervenire. E lo capiamo interpretando i numeri e parlando con i clienti, non c’è altra via. A quel punto possiamo pensare a come migliorare il tutto ed è qui che entra in gioco la sperimentazione.
Altro fattore importantissimo: saper aspettare. Non bisogna confondere la velocità della sperimentazione con la velocità dei benefici. Ormai il web è pieno di articoli in cui si elogia il growth hacking soprattutto per la sua velocità e i risultati positivi immediati. Mentono, spudoratamente. Se qualcosa riesce al primo tentativo, non bisogna abituarsi. Così come bisogna avere fiducia nel fatto che un esperimento riuscito bene dopo 6 mesi, spesso ripaga tutti quelli precedenti.
Per questo dico sempre che il growth hacking è per tutti, ma spesso non tutti sono per il growth hacking.
In Treedom? Ci sono voluti 4-5 mesi prima di vedere i risultati. Un esperimento, ad esempio, consisteva nel migliorare la UX del checkout in fase d’acquisto. Risultato? Conversion rate raddoppiato e mai più sceso per tutto il resto dell’anno. L’impatto positivo è stato devastante.
Ultimo suggerimento: partire con poco, ma partire.
Di recente growthhackers.com ha stilato un report da cui è emerso che il 76% dei growth-team fanno meno di 10 esperimenti al mese e il 63% dei team è composto da 1-3 persone.
Cosa significa?
Che la percezione gioca brutti scherzi sulla nostra intraprendenza.
E che non abbiamo più scuse per rimandare.
Elena Sanjust di Teulada
Digital Growth Specialist @ Elena Sanjust di Teulada // LinkedIN
Cos’è il Growth Hacking dal mio punto di vista
è un mindset, un modo di pensare, un insieme di capacità che permettono di integrare strategie e processi, lettura dei dati e creatività, quindi avere una visione a 360° (“olistica”) di un business
per portare crescita a tutti i livelli: certamente nei risultati, ma anche attraverso la ristrutturazione dei processi, passando dalla creazione del prodotto fino al marketing e alla comunicazione tout court.
Insomma non è solo sperimentazione (quello è il metodo per raggiungere i risultati), e certamente non è questione di trovare il trick migliore.
Per farlo ci vogliono competenze molto variegate e approfondite, oltre la classica T-shape, sviluppate e interiorizzate in parecchio tempo.
Caso studio
Posso parlare della crescita di un business che seguo come Growth Specialist da un anno, che parte dall’unione di due brand, per cui ho unito in una unica academy i loro corsi, e tutta la Customer Journey.
I risultati ottenuti in meno di un anno sono stati oltre le aspettative (tutti in organico), come crescita della solidità del business oltre che del fatturato (+160%):
- aumento vendite +93%
- aumento valore acquisto medio +35%
- acquisti annuali per cliente + 30%
- aumento clienti rispetto anno precedente +49%
- aumento valore cliente rispetto anno precedente +75%
- aumento iscritti +100%
Bisogna sottolineare che tutto questo è stato possibile perché il prodotto era già oltre il Product Market Fit, con un target già ingaggiato e in cerca delle soluzioni proposte, quindi domanda consapevole e brand riconosciuto e già leader di nicchia.
Come abbiamo agito?
Su quasi tutti i punti del Funnel dei pirati AAARRR:
- Awareness: organizzando la struttura e la distribuzione dei contenuti e migliorando la SEO
- Acquisition: creando ancora più Lead Magnet e migliorando la UX dei siti
- Activation: unificando i funnel di email per un nurturing più segmentato
- Revenue: portando il modello verso Recurring con prodotti evergreen, non solo lanci, e alzando il prezzo dei prodotti dopo averli migliorati e aggiornati (alcuni con parti anche fisiche)
- Retention: abbiamo aumentato il Life Time Value offrendo upsell, bundle e coupon
Cosa faremo nel futuro?
Continueremo ad ottimizzare ogni singolo passaggio, introducendo ad esempio gli ATC, pagamenti dilazionati, una membership, espanderemo la strategia di content marketing creando un processo di generazione contenuti, e soprattutto continueremo a strutturare i processi interni per snellire il lavoro operativo e poter introdurre nuove figure in modo lean.
Il consiglio
A un professionista che voglia far crescere il proprio business sul web posso dire di aggiornarsi e studiare sia il marketing online che la metodologia lean, per iniziare da solo e per poter scegliere con cognizione di causa un professionista che lo aiuti, non facendosi trascinare dalle sirene del guadagno facile.
Per crescere ci vuole tantissimo lavoro su molti fronti: molta costanza nella produzione di contenuti, capacità di analisi del target e del prodotto, per crearlo soddisfacendo una richiesta esistente, capacità di creare una relazione con il target mantenendo uno stile personale, sviluppare un mindset analitico e creativo insieme…
E soprattutto tanta tigna.
Andrea Palermo
Founder @ Growthers // LinkedIN
In un mondo digitale che corre ad una velocità incredibile il marketing diventa una delle prime competenze di business che un imprenditore che opera in un mercato digitale deve avere, e questo è ormai risaputo.
Il growth hacking si fonda su processi strategici e logici che si adattano da un lato alla nuova velocità che caratterizza questo mondo digitale, e dall’altro alla mole di dati che ne derivano, creando opportunità tangibili in termini di scalabilità e di crescita di business.
Come implementare una strategia di growth hacking? I sei step principali che non si possono trascurare:
1)Definisci l’obiettivo
Il growth hacking è un processo che ha bisogno di un obiettivo chiaro e definito.
2)Fai un’analisi approfondita
Una volta identificato l’obiettivo è necessario procedere in una analisi strutturata che ti dia da un lato una panoramica esaustiva sul contesto in cui ti muovi e dall’altro delle idee da mettere in campo.
Esempio di analisi:
- individua tutte le ADS dei competitor sulle varie piattaforme. Cerca di capire come si muovono e qual è il loro obiettivo.
- Studia i contenuti che presidiano le keyword correlate al tuo prodotto nelle ricerche di google, e le piattaforme su cui sono ospitati.
- Analizza l’infrastruttura di tracciamento che hanno i tuoi competitor. ESEMPIO: Usano il pixel di facebook? che eventi tracciano?
- Studia strategie di altri player in industry diverse che hanno un obiettivo simile.
3) Stabilisci le ipotesi strategiche
In base all’interpretazione dei dati recuperati con l’analisi, quindi, si stabiliscono delle ipotesi e ne viene valutata la fattibilità.
Per fattibilità si intende:
- tempo di implementazione
- difficoltà di implementazione
- budget minimo da destinare ad ogni ipotesi strategica al fine che questa funzioni e restituisca dei dati utili alla valutazione della singola azione.
Le ipotesi strategiche sono il cuore pulsante del growth hacking, e si traducono in una lista di possibili esperimenti da mettere in campo.
4) Implementa gli esperimenti
In base alle ipotesi stabilisci delle priorità e attrezzati di tutto l’occorrente per lanciare i vari esperimenti (lavora su copy, creatività, partnership e via dicendo)
5) Monitora e ottimizza
Operativamente qualsiasi azione messa in campo può essere sempre ottimizzata e specialemente in una fase di test può presentarsi sempre qualche inghippo.
6) Identifica il canale di traction e preparati alla crescita
Man mano che i diversi test iniziano a portare risultati, diventerà sempre più chiara la strategia che genera più traction. Una volta identificato il canale adegua la tua infrastruttura digitale e preparala a crescere.
Nella maggior parte dei casi i business più strutturati e maturi sono quelli che hanno più difficolta nell’implementare questi approcci. Questo deriva probabilmente dal fatto che spesso i team che fanno parte delle direzioni marketing hanno mansioni quotidiane di routine che assorbono il 95% del tempo lavorativo a disposizione.
Per questo il growth hacking è una grande opportunità per tutti quelli che sono in fase di startup. Adotta da subito un approccio data driven, ottimizza il budget, le strategia, e mantieni la tua struttura dinamica e orientata alla sperimentazione e alla crescita.
Fabio Bin
Chief digital & marketing Officer @ WeRoad // LinkedIN
Growth hacking è un termine che normalmente ascriverei alla categoria delle buzzword, quelle parole che periodicamente si presentano come il nuovo trend in ogni settore, e nel marketing abbondano. Pompose da un lato, poco utili nel mondo reale dall’altro.
Oggi tutti cercano i growth hacker con l’aspettativa di far crescere più rapidamente (o sbloccare) il proprio business.
Bad news: come sempre non ci sono ricette.
E’ vero però che alla base del growth hacking ci stanno i principi mutuati dai movimenti lean: costruire qualcosa, che sia un sito, un’app, una funzionalità, un messaggio pubblicitario, ma anche un’offerta, un prezzo per un prodotto, uno sconto (BUILD). Dare poi questo qualcosa in pasto ai potenziali consumatori e vedere come reagiscono (MEASURE). Dalle reazioni, adattare, ridare in pasto, vedere la reazione (LEARN).
E ripetere a piacere (dove piacere = infinito).
Tutto semplice, no?
Sì, ma nella vita reale come faccio?
Beh, una volta fatto proprio questo approccio, a mio avviso, bisogna giocoforza andare sulle persone e sulle competenze cercando persone che abbiano un approccio multi-disciplinare (siano cioè in grado di spaziare in altri ambiti contigui alla propria competenza chiave), e abbiano interiorizzato l’approccio Build, Measure, Learn e dando loro (pochi) obiettivi ben chiari da raggiungere nei modi che ritengono migliori in modo da sperimentare senza timore.
Prendo l’esempio di una figura di videomaker all’interno del team marketing di WeRoad: a differenza di un “tradizionale” videomaker conosce bene gli obiettivi di business e di marketing, conosce le logiche intrinseche della piattaforma su cui il video verrà distribuito (che sia YouTube, Instagram, Facebook o TikTok), ha sviluppato competenze di copywriting e ha chiari gli obiettivi dell’azienda e i suoi individuali. Tutto ciò gli consente di realizzare in poco tempo e in autonomia dei video ottimizzati per gli obiettivi di business (BUILD), sa anche valutare (MEASURE) se quel video è “andato bene” oppure no. Di conseguenza ad ogni nuovo video da realizzare tiene in considerazione l’esperienza fatta col video precedente (LEARN) e lo realizzerà nella maniera migliore (BUILD).
Più competenze stanno in una persona (o in un piccolo team) e meno frizioni (ad esempio pochi vincoli approvativi) più il processo potrà funzionare bene e velocemente.
Onestamente non so dire quanto possa funzionare su larga scala ma, per esperienza, posso affermare che sicuramente funziona a livello startup.
Insomma, dovendo introdurre del growth in un progetto Web o di digital marketing, partirei dal portare in casa una o due risorse in grado di creare un humus interno orientato alla multi-disciplinarietà, dando obiettivi chiari e margine di sperimentazione.
E’ fondamentale però che siano in grado di spaziare tra ambiti affini ma diversi (es. analytics, piattaforme di acquisto pubblicitario, ecc.) e che abbiano conoscenze concrete anche di produzione (skills di editing foto e video, eventualmente anche coding). Da quei primi profili si può poi costruire un team più robusto integrando altri profili più verticali ma aperti a “porosi” verso competenze non strettamente del proprio ambito.
Poi tanta velocità e poca paura di sbagliare (fa parte del processo!).
Gerardo Forliano
Growth Hacker & Startup Mentor @ Gerardo Forliano // LinkedIN
Implementare un processo di sperimentazione rapida su un progetto web può essere tutt’altro che semplice.
Innanzitutto bisogna capire se chi è a capo di questo progetto abbia realmente compreso cosa sia il growth hacking.
Spesso si associa questo termine con l’idea di poter far crescere un business rapidamente ed esponenzialmente ‘no matter what’, ovvero come se si avesse una sorta di bacchetta magica che rende ogni operazione eseguita un successo di marketing.
Magari fosse così, magari.
La realtà è ben diversa e chiaramente – come sempre – bisogna usare tanto buon senso.
Una volta verificato che il management del progetto ha realizzato che il growth hacking è un processo operativo che permette di individuare quali attività funzionano e quali no per un determinato business, bisogna verificare successivamente che il progetto web abbia i giusti requisiti affinché si possa introdurre questa metodologia.
In una parola (combinata), Product-Market Fit (PMF).
Il nostro prodotto (o servizio) risponde ad un problema o esigenza sentito da un gruppo di persone abbastanza cospicuo da rendere il progetto profittevole?
In caso contrario, andremo a lavorare su un prodotto “schifoso” o su un mercato di riferimento non ricettivo. Nel caso peggiore avremo entrambe le situazioni.
Dopodiché sarà necessario accertarsi che ci sia la giusta cultura aziendale.
Chi lavora su questo progetto è disposto a mantenere una certa metodicità caratterizzata dal progettare e tracciare tutti gli esperimenti effettuati, analizzare i risultati ottenuti e soprattutto accettare che la maggior parte delle prime attività possa rivelarsi fallimentare?
Se la risposta è positiva allora possiamo affermare che il team ha la giusta predisposizione psicologica per poter abbracciare il growth hacking all’interno della propria routine lavorativa su base quotidiana.
Infine, come ho appena anticipato, è anche questione di team, completo e competente.
Il growth hacking è un layer di alto livello, è il cappello sotto al quale vi sono tutte le attività di marketing, prodotto, analisi dei dati e business modeling, è il metodo che regola e coordina l’operatività.
E questa operatività è data dal team. Senza un team “cazzuto” (passatemi il termine), non si va da nessuna parte.
Si può essere i più bravi growth hacker del mondo ma se chi fa la parte operativa è poco preparato, c’è molto poco da fare.
Infatti il growth hacking è uno sport di squadra.
Una squadra che deve vedere obbligatoriamente all’interno della sua rosa – per fare le cose per bene – uno o più giocatori di marketing (es. ads, content, automation), uno o più giocatori di prodotto (es. sviluppatori, UX e UI designer) e uno o più analisti di dati.
Ovviamente la rosa deve essere tanto grande quanto lo è il progetto stesso e il business che ci sta dietro.
Significato, PMF, cultura e team operativo.
Questi sono gli ingredienti essenziali per una ricetta che possa chiamarsi veramente “growth hacking”.
Luca Barboni
Founder & VP of Marketing @ 247X // LinkedIN
Non ha senso provare a vendere degli hot dog ad un vegano.
Con il growth hacking è la stessa cosa.
La prima cosa da bisogna capire quando si parla di growth hacking, è che si tratta di una metodologia: un processo.
E i processi vengono DOPO la cultura, e PRIMA dell’operatività.
Seguendo il paragone dell’hot dog: ha senso parlare di ricette e tecniche per preparare l’hot dog DOPO essersi assicurati che ti piace mangiare carne, ma PRIMA di andare ad acquistare gli ingredienti e mettersi di fatto a cucinare.
Questo per dire che il primo passo per poter portare il growth hacking all’interno di un business, è l’educazione e l’allineamento con la visione del mondo che c’è dietro.
- Nel growth hacking si analizzano i dati, perché si crede che le opinioni (non testate) rischino di farci fare ancora più errori.
- Nel growth hacking non si fanno piani a lungo termine, perché si crede che ascoltare il mercato continuamente a costo di cambiare rotta, sia la cosa più saggia da fare.
- Nel growth hacking si sperimenta continuamente, perché si crede che l’unico modo per scoprire come fare ad interpretare davvero cosa vuole la gente sia procedendo per prove ed errori.
Paradossalmente potremmo dire che il growth hacking è questione di fede. Se l’imprenditore concepisce l’imprenditoria in un certo modo, si tratta semplicemente di buon senso.
Se l’imprenditore NON vede le cose in questo modo, allora la prima preoccupazione dovrebbe essere quella di (in)formarlo per aiutarlo a scoprire come questo modo di approcciare il business sia responsabile dei più grandi casi di crescita esplosiva che ci sono al mondo.
Una volta chiarito il punto della cultura, uno dei principi cardine del growth hacking è che “crescita” può voler dire diverse cose a seconda dello scenario.
Questo per dire che un conto è lavorare su un business che deve fare da 0 clienti al 1° cliente.
Altro è lavorare su un business che deve fare da 1 a 10. Così come da 10 a 100, da 100 a 1000 e così via.
Perciò il mio consiglio è “Sappi sempre dove sei.”
La suddivisione Pre-Product Market Fit e Post-Product Market Fit ci viene in aiuto su questo.
Infatti un altro dei principi fondamentali del growth hacking è: non c’è scelta di marketing peggiore che fare marketing su di un prodotto o servizio che non vuole nessuno.
Il Product-Market Fit è una parola complicata per dire semplicemente: hai o no la conferma (dati) che sei riuscito a realizzare qualcosa di altamente voluto e apprezzato dalle persone a cui ti rivolgi?
Se non hai ancora questa conferma, ovvero sei nella fase Pre (prima del) Product Market Fit, dovresti concentrarti prima di tutto sulla sperimentazione relativa al prodotto/servizio che stai portando sul mercato.
Se invece hai questa conferma, ovvero sei nella fase Post (dopo il) Product Market Fit, dovresti concentrarti sulla tua strategia di distribuzione: ovvero trovare dei canali di marketing dove puoi incontrare i clienti giusti, incontrarne tanti, e incontrarli ad un costo che puoi permetterti.
Concludendo
In questo articolo abbiamo visto il parere di 9 growth hacker professionisti italiani. Hanno risposto alla mia domanda, volutamente un po’ generica, regalandoci il loro punto di vista, la loro esperienza e consigli utili per chi vuole approcciare questa disciplina.
Per concludere, riassumo le cinque lezioni che ho trovato in queste risposte:
- Il growth hacking richiede un cambio di mentalità quindi se lo vuoi introdurre nella TUA azienda dovrai essere pronto a mettere in discussione il modo di pensare ‘tradizionale’!
- Il growth hacking non serve ad avere risultati veloci, ma permette di andare lontano con un miglioramento costante.
- Gli esperimenti e i dati potrebbero farti scoprire cose che non ti piaceranno…. tipo che hai preso decisioni errate e hai puntato sui prodotti sbagliati. Assicurati che tutti nell tuo team siano pronti ad accettarlo.
- Ci gasiamo quando troviamo qualcosa che va bene. Ma quello che va bene oggi, non andrà più bene domani. È una cosa a cui penso molto ultimamente. Bisogna sempre innovare, e il growth hacking permette di farlo con piccoli ma continui passi avanti.
- Forse anche tu ora non puoi permetterti di assumere un growth hacker professionista. Però tutti possiamo iniziare a sperimentare e misurare nelle nostre attività online.
E tu, che ne pensi del growth hacking?